Racconti. Geometrie scalene.

Il racconto “Geometrie scalene” è stato ospitato sul blog di narrativa e vetrina letteraria “La rosa in più” al seguente link e pubblicato nell’antologia Racconti dal Piemonte vol. II, edita da Historica Edizioni (marzo 2018).

Mani

Giovanni stava seduto al tavolino verde, di spalle, con il viso rivolto alla finestra, in quello stanzone spoglio e un poco sporco che sapeva di candeggina, nel caldo torrido di una Torino assetata di inizio agosto. Teneva accanto al letto alcuni generi di conforto: biscotti, caramelle, una radiolina, cannucce, svariate bottigliette d’acqua. Conosceva ormai perfettamente orari e abitudini di ogni suo compagno di stanza, aveva instaurato con ognuno un’amabile complicità, quella che si crea tra compagni di viaggio di sola andata.

Aveva le spalle sempre più magre, spuntavano spigolose dalla canottiera bianca a righe sottili, le gambe ossute sparivano ingoiate dal pigiama, le mani incrociate tradivano uno stato di pensosa attesa. Passava la maggior parte del tempo seduto, aspettando qualche novità oppure semplicemente assorto nei suoi pensieri. C’era qualcosa che sfuggiva alla sua logica, non poteva non pensarci. Non poteva capire perché ora si sentisse così, improvvisamente debilitato e fiacco, in quella stanza dell’ospedale Giovanni Bosco, fino ad allora conosciuto solo di nome.

“Mi hai portato il gelato”?

“Si scusami, sono arrivata tardi perché era chiusa la gelateria all’angolo, ho girovagato qui intorno, ma mi sono persa. Mi sembra di non essere neanche a Torino. E poi volevo portarti questi.”

Greta aveva questa particolarità. Nata e vissuta nel quartiere Cit Turin, non riusciva mai a raccapezzarsi in quella città facile e nota per la regolarità delle sue strade. Si orientava solo in quel piccolo quartiere, rassicurante e a misura, per il resto non sapeva mai esattamente dove si trovava fisicamente e lo stesso valeva per il suo stato mentale. Era distratta, perdeva oggetti, si smarriva e poi si ritrovava. Aveva intravisto papaveri lungo la strada e aveva pensato di prenderli; poi si era fermata, immaginando di trovarsi in un prato di campagna e li aveva raccolti per lui, perché non resisteva al fascino di quel fiore selvaggio e pervicace, capace di sopravvivere un po’ ovunque e di incantare anche in quella strada desolata del quartiere di Madonna di Campagna. Sentiva che quell’estate le si sarebbe appiccicata addosso, insistente, e per lungo tempo non l’avrebbe più dimenticata.

“Te li sistemo qui, ti piacciono?

“Sono bellissimi, sono come te, spontaneamente belli, non ci vuole un particolare impegno. Greta, quando arriva la mamma?”

“Dovrebbe venire stasera, ma è molto stanca, quindi deciderà all’ultimo. Io resto comunque, non ti preoccupare. Io ci sono”.

“Eh sì Anna è stanca, per questo io non posso stare a lungo qui, devo rimettermi per portarla al Parco del Valentino, a fare delle belle passeggiate. Ma forse a lei piace più la Tesoriera, è più intima e raccolta, raffinata come lei. Deve camminare, bisogna farle capire che deve uscire. Tu glielo dici vero?”

Anna e Giovanni si erano conosciuti poco più che trentenni, tramite un’amica comune, che li aveva presentati proprio con l’intento di farli avvicinare, con quell’intento lì insomma. Giovanni era svampito e garbato, aria da bravo ragazzo e occhi da sognatore; Anna era delicata e timida, ma decisa a creare una famiglia come se l’era immaginata fin da bambina, nella sua fotografia ideale. Si fidanzarono in un’inattesa sera di Capodanno. Si erano trovati soli per caso, loro due in macchina, diretti a quella casa in campagna dove avrebbero festeggiato tutti insieme. E proprio in quella sera scoprirono un’intimità inattesa, soffice.

Sei mesi dopo si sposarono.

“Un fidanzamento breve è la cosa migliore, tanto alla fine non ci si conosce mai per davvero”.  Lo ripeteva spesso la mamma di Giovanni e in fondo non aveva affatto torto. Dopo poco meno di un anno arrivò Greta e quella visuale di coppia si allargava.

Oggi a distanza di anni, la visuale era ancora diversa, Anna e Giovanni guardavano il mondo da prospettive statiche, catturati da reciproche nostalgie e pensieri fluttuanti.

Anna, seduta sulla sua poltrona azzurra ed ingiallita, passava ore intere a leggere le storie di altri, a leggere libri di storie e persone. Lo sguardo annebbiato, la mente lontana e quella sensazione di disperdere qualche particolare importante. Riviveva i suoi anni, i pomeriggi di sole nella campagna del Monferrato, le mattinate in cattedra con gesso e matita, le serate affacciata a quel balcone, le sveglie mattutine a sfornare biscotti e pan di spagna. Di passi ormai ne faceva sempre meno, eppure continuava a sorridere dolcemente alla vita, al di là di tutto.

E Giovanni si ritrovava d’improvviso relegato in una stanza d’ospedale, dopo una breve permanenza al pronto soccorso e un ricovero d’urgenza.

“Vuoi pistacchio? Anche un po’ di nocciola? Devi mangiare!” Greta sapeva che il suo primo pensiero, quello più urgente, andava ora indirizzato a suo padre. Sentiva che si stava alterando qualcosa nell’economia delle loro esistenze, tutto stava accadendo troppo in fretta.

“Mi trovi tanto magro?”

“Un po’”.

Non riusciva a guardarlo negli occhi, mentre glielo diceva. C’era un senso di tristezza così concreto e palpabile, da impedire agli occhi di fissarsi su di lui, su quel corpo in piena sfioritura, avvizzito e vuoto.

Si parlavano ormai attraverso mezze verità. Ognuno attento a non turbare l’equilibrio dell’altro, quasi in una danza incerta di parole, che si concatenavano l’una alle altre. Premurosi di trovare le parole giuste, misurate. Tutto doveva essere privo di eccessi, di emozioni troppo forti, di scombussolamenti interni.

Greta non aveva mai saputo parlare a lungo con suo padre. Finiva con l’irritarsi perché era prolisso, o troppo premuroso o troppo esigente.  In quella stanza d’ospedale stava scoprendo un codice nuovo, fatto di gesti di cura, resoconti di conversazioni intrattenute con i medici, dialoghi distraenti sugli ultimi esami di linguistica e antropologia. Stava imparando e ogni volta avrebbe prolungato all’infinito quelle visite, come allenamento di un rapporto che andava nutrito e poi custodito, a memoria di dolcezze passate.

“Stasera viene anche la zia”

“Ah non ho dubbi, lei c’è sempre. E domani arriva anche mia sorella. Vi state preoccupando troppo per me e questo non è giusto. La mamma soprattutto, lei mi dà pensieri”.

Era sicura che lo pensasse davvero, che fosse davvero inquieto per lei. Greta lo sapeva. Per quanto sapesse anche che i genitori non sono soltanto genitori. Mamma e papà. Sua madre e suo padre. O comunque non lo erano sempre stati. C’era una parte della loro vita che sfuggiva, che neanche una figlia avrebbe potuto conoscere, né penetrare. Ad esempio la loro esistenza, prima del suo arrivo. Sapeva che qualcosa dei genitori rimane gelosamente nascosto e ignoto. Una zona di rimpianti e rimorsi e possibilità mai realizzate. E scelte trascurate o dimenticate o a turno perseguite. E’ che a un certo punto la vista si restringe, ma non per questo uno smette d’immaginare o di pensare cos’altro gli sarebbe potuto succedere se soltanto, se allora non avesse fatto questo o quell’altro.

Tutte le sere alle 20 circa, da un mese a quella parte, Greta salutava suo padre, gli aggiustava i cuscini, ripiegava le lenzuola, si assicurava che prendesse tutte le medicine e lo accarezzava sulla testa

“Stai tranquillo, dormi e fai bei sogni, e mangia a colazione, me lo hai sempre detto tu che è il pasto più importante”.

Il loro saluto si consumava tra raccomandazioni reciproche, abbracci e sguardi, parole che volavano leggere. Mentre stava uscendo, incrociò lo sguardo di una ragazza minuta, che sostava al di fuori della camera. Accadeva ogni sera, la ragazza stava lì in attesa di iniziare il suo turno, delicata e pallida, smarrita, eppure risoluta in quella sua paziente sospensione. Era di una bellezza invidiabile. Aveva i capelli lunghi sciolti, di un nero lucente, le spalle quadrate e un’andatura fiera, come i suoi occhi profondi e penetranti. Quella sera si soffermò a chiedersi chi fosse, non l’aveva mai vista interloquire con nessuno della stanza 34, eppure era evidente che fosse un familiare intimo, vista la sua presenza assidua, instancabile, eppure discreta.

Quella sera il cielo su Torino si fece d’improvviso nero e cupo, carico di nubi grevi e minacciose.

Greta aveva dimenticato in camera l’ombrello, non poteva permettersi di ammalarsi proprio ora, tornò indietro. Salì le scale di corsa, si diresse nella stanza 34, ma a quel punto si arrestò di colpo. Credeva di aver sbagliato piano o camera. Trattenne il respiro, guardò a lungo. Si chiese se non stesse immaginando tutto, se non stesse semplicemente capendo. La realtà ha molteplici facce, era cresciuta con tatuata addosso quella massima di sua nonna; ora più che mai doveva darle credito, attribuire la giusta importanza a quella frase così vuota e inconsistente. La ragazza dagli occhi neri e pungenti, dall’aspetto timido e gracile, quella giovane donna si trovava seduta là, accanto a suo padre. In silenzio. Giovanni dormiva, la bocca leggermente aperta, le braccia abbandonate sul lenzuolo, gli occhiali rotti e Le confessioni di Sant’Agostino tra le mani. Lei era seduta su una sedia, con le spalle alla finestra. La luce che veniva da fuori le ritagliava il contorno del corpo e la rendeva ancora più piccola e bella. Aveva le mani appoggiate sulle ginocchia, come una bambina educata e diligente, la testa un poco reclinata, lo sguardo assorto, rivolto solo a lui. Nessuno sembrava accorgersi della sua presenza, né si rivolgeva a lei. Doveva aver pianto, sulle guance e sul collo erano spuntate minuscole macchie rosse. Non parlava con nessuno, non alzava gli occhi, stava lì immobile, granitica nella sua dedizione.

“Dorme così bene, solo quando arriva lei” sentì proferire dall’infermiera di turno.

Greta sentì la terra girare vorticosamente, per poi sgretolarsi con violenza. Avrebbe voluto tornare indietro e non pensare a quel dannato ombrello. Sciocca che era stata, che stupida preoccupazione l’aveva assalita. Era arrabbiata, rabbiosa con se stessa perché aveva pensato di doversi riparare. Aveva sempre cercato che la pioggia la cogliesse d’improvviso, che le nuvole passassero e scaricassero acqua, per godere poi di quel silenzio, di quella pace della pioggia che cade e porta aria fredda e lava via stanchezza e avanzi di una giornata sul finire.
Nessuna pioggia sarebbe stata troppo battente e impertinente al confronto di quello che si era delineato davanti ai suoi occhi, ora non poteva più tornare indietro, non poteva più non farsi domande. Era impotente e triste con i pugni chiusi, i denti stretti, in bilico sulla cima di quel muro ideale, stava pensando da che parte potesse scendere. Fece in modo che nessuno la rivedesse nel corridoio, che l’infermiera di guardia non la fermasse e si precipitò giù dalle scale. Correva veloce, senza direzione, di una corsa scomposta e accelerata, Dio solo sa quanto avrebbe desiderato una pioggia continua e fitta, che la ripulisse di quegli interrogativi prepotenti, un sonno che le facesse dimenticare quello che aveva visto, una doccia gelida che la risvegliasse dal torpore in cui era caduta. Se non fosse tornata indietro, non avrebbe visto nulla e non avrebbe dovuto chiedersi nulla. Bastava fare così, trascurare quel frammento di giornata, ignorare quella figura apparsa, pensare che di ogni vita non puoi che conoscerne una parte e non si deve sconfinare in territori limitrofi. La realtà ha confini stretti, gli ambiti noti hanno perimetri ancora più limitati.

Il giorno dopo sarebbe stata una giornata pesante. L’incontro con il primario, l’arrivo della zia da Cremona, il colloquio con il professore per convincerlo a spostarle la sessione d’esame a Palazzo Nuovo.

Voleva urlare.

In mezzo a suo padre e sua madre, aveva sempre deciso di stare nel mezzo, anche nei momenti in cui lui diventava eccessivo e fastidioso, o lei insofferente e distante, o quando lui esplodeva come un fuoco d’artificio, squarciando quel minuscolo cielo familiare, apparentemente quieto, eppure rattoppato, e lei riportava alla luce vecchie recriminazioni che odoravano di troppi pigiami lavati e stesi, di viaggi ambiti e mai fatti, di alberi di Natale con le palline opache abbandonati in cantina, di giocattoli conservati e vestiti piegati con cura.

In fondo suo padre sapeva da che parte stava sua figlia, ma Greta non aveva mai saputo se la cosa lo rattristasse o meno.

E ora che stava imparando a stare con lui, a trovare un modo per stare semplicemente, qualcosa stava nuovamente cambiando. Si buttò nel letto esausta e vestita così com’era si addormentò.

“Buongiorno, la stavo aspettando”

“Sì non arrivava il pullman e ho fatto prima che potessi. Mi dica come va dottore? Mi dica la verità per favore …”

“Beh, non molto bene. La situazione non è semplice, il quadro si sta complicando, e anche velocemente”.

Sembrava che fosse la prima volta che gli capitava di fare un discorso del genere con i parenti di un malato e che non sapesse di preciso cosa avrebbe dovuto dire, e come.

“Sì questo me lo aveva già anticipato, ma non riesco a capire fino a che punto e soprattutto cosa posso dire a mio padre, cosa è meglio che dica”

“L’unica cosa ragionevole da fare a questo punto è cercare di non farlo soffrire. Gradualmente gli somministreremo sedativi, ma non si preoccupi, gli parleremo insieme.”

“Mi chiami Greta, per favore, vorrei che fosse mio fratello in questo momento, vorrei avere un fratello come lei, per dividere la pena o anche solo per parlare”

“Lo so”

Le sembrava di stare seduta nella sala di un vecchio cinema con le sedie di legno e il pavimento amaranto scuro ad assistere quelle scene di un film in cui il dottore dice “Non c’è più niente da fare” e in sottofondo si sentono note musicali lontane, poco orecchiabili. Quelle musiche stupide, perché non c’è un brano adatto per circostanze simili.

“Potrà di nuovo tornare a casa?”

“Se devo essere sincero Greta, non credo. E’ meglio che rimanga qui, dove può essere assistito. Sa, per ogni evenienza, non so come dirglielo, ma dovreste proprio prepararvi al peggio, lei e sua sorella. Insomma la situazione è davvero critica”

“Mia sorella? Sì sì certo, ho capito. Gliene parlerò io, non ne dubiti. E possiamo almeno inserirlo in un programma di ricerca? Continua a chiedermelo con insistenza, è come se volesse fino all’ultimo poter contribuire a qualcosa, servire a far star meglio qualcuno. Vorrei potergli dare questa illusoria speranza. La prego, non mi dica di no”

“D’accordo”.

Greta capiva l’imbarazzo di quel medico. Poi annusava e guardava il suo di imbarazzo, frettolosamente dissimulato, lei che fingeva di sapere di avere una sorella, che si premurava di far sentire suo padre importante ed utile, anche negli ultimi giorni della sua vita, che pensava a sua madre ignara di tutto oppure evidentemente no. Si sentiva quasi in pena per quel dottore, ma anche per se stessa. Avrebbe voluto bloccare quel dottore, abbracciarlo, urlargli il suo dolore che andava oltre una perdita che si avvicinava disumanamente, piuttosto voleva raccontargli la voragine di un baratro imprevisto, di una donna che non voleva aver visto, di una realtà insolente, di certezze che si sbriciolavano illusorie davanti ai suoi occhi. Greta allungò la mano per salutarlo e quando le tese la sua, gliela strinse forte come se stessero vivendo quell’avvenimento speciale che li aveva uniti profondamente, anche se solo per poco.

Lo rivide qualche anno dopo, nella sala d’attesa del pronto soccorso del Maria Vittoria, mentre aspettavano che medicassero sua madre, lo riconobbe subito, anche se era cambiato, aveva perso quasi tutti i capelli. I loro sguardi si incrociarono e lei rivide quegli occhi buoni, un po’ disorientati, ma lui sembrò non riconoscerla.

Ora invece la guardava con intensa tenerezza, sapeva che Greta si stava accollando la fatica per tutti.

 “Papà ehi, sono io. Ci sono, va tutto bene”.

Greta avrebbe voluto raccontargli qualcosa, una storia che avesse il potere di fermarlo per un po’, dovunque fosse diretto ormai, ma era lui quello bravo a raccontare, a far viaggiare i suoi cari, a farli volare in alto con ambizioni sempre crescenti. Cercò di pensare cosa le avrebbe detto, come si sarebbe comportato suo papà al suo posto, come le avrebbe presentato quella falsa verità di un programma di ricerca, di un reparto di un ospedale così grande e asettico, che sarebbe diventato una nuova dimora, di un reparto di uomini e donne difettosi che cercavano un brandello di senso e di sollievo, di un corpo che non reagiva a nessun farmaco e a nessun cibo, di una mente che doveva far pace con l’idea di partire. Come glielo avrebbe detto? E cosa le avrebbe detto di quella giovane, attraente donna dai capelli neri, dai gesti lenti e lievi, che sostava ogni sera accanto a lui?

Ma Greta non disse nulla, lo guardò soltanto. Che ne sapeva lei di cosa prova un padre a quel punto lì della vita, di quali rimpianti sta vivendo, di quali segreti sta serbando, di quante e quali denunce o dichiarazioni vorrebbe fare. No, non proferì parola, appoggiò semplicemente la mano sulla sua e guardò il cerotto bianco che copriva la punta dell’ago infilato nell’avambraccio e la vena gonfia, bluastra, che sbucava da sotto il cerotto per poi perdersi sotto il camice. In quella vena pulsava il sangue di suo padre, quel sangue che un tempo era stato giovane, pieno d’ossigeno e di energia e ora pulsava stanco mescolato a farmaci, ai sedativi, alla morfina, come il corso di un fiume nel punto in cui la fabbrica scarica i suoi scarti. Veleni che nessuno deve vedere.

Greta a questo punto non voleva vederli quei veleni. Poteva scegliere. Poteva distogliere lo sguardo, voltarsi dall’altra parte, dimenticare. Oppure guardare dentro, scavare a fondo, grattare nella sua vita attigua. C’era già un padre, suo padre che era intriso e immerso in quei veleni, lei doveva salvarsi.

Mentre se ne stava lì a guardarlo, entrò un’infermiera, le chiese come di consueto di uscire per l’ordinario giro di pulizia e la somministrazione degli ultimi medicinali. C’era una sorta di riguardo religioso che si svolgeva a quel punto della giornata, una sorta di celebrazione da svolgere solo tra pazienti, un rituale al quale tutti si attenevano obbedienti. Greta aveva paura di uscire dalla stanza, di incontrare quegli occhi taglienti e bui, capaci di estraniarsi eppure di reggere qualsiasi sguardo anche il più ostinato, di incrociare le occhiate indagatrici degli altri pazienti della stanza. E allora scelse di stare lì, di occupare quel posto fino alla fine, chiese all’infermiera di potersi fermare e di non fare entrare nessuno, almeno quella sera. Non ci fu bisogno di insistere, capì. Compresero tutti.

Ora quella stanza verde grigia era solo e solamente il loro spazio.

Si sdraiò accanto a suo padre, lo prese per mano, avvicinò il suo corpo sottile e ripensò a sua madre che li aspettava tutti e due a casa, per cena.

“Parlami Greta, ho bisogno di sentire il profumo di casa, di ripercorrere Via Peyron, di ritrovarmi nella piazza, di sedermi sulla nostra panchina”.

Perché nulla più della casa è spazio di memori, delle prime volte, di conquiste, luoghi di incontro e nascondigli sicuri.

La loro casa era quella casa, uguale a tante, eppure unica nei suoi mobili bianchi anni 70, nei profumi di manicaretti e lenzuola fresche, nelle stanze tutte regolari. Conteneva cose e persone insostituibili, custodiva segrete gioie e dolori, cambiava le sue sembianze. Oggi la guardavano insieme da quel letto spoglio d’ospedale, Greta la raccontava a suo padre Giovanni e la vedeva invecchiata, ricoperta di una coltre bianca, un poco canuta e polverosa, intrisa di quei ricordi che assalgono d’improvviso e fanno sentire il sapore di lacrime in gola.

Oggi quella casa era custode di chi mancava e vegliava gentilmente su chi c’era ancora. Era un divano dove si leggevano libri, una stanza dall’odore di caffè. Era in parte vuota, ma ancora carica di tutti quegli oggetti che la rendevano vissuta.

“Chiudi gli occhi papà, mamma è già a letto, ha abbassato le tapparelle e ha spento la luce”.

“Sì, ma tu ora vai, chiudi la finestra, c’è un vento forte stasera, un’aria che mi toglie il respiro”.

“Sto ancora un po’, qui vicino a te allontano i brutti pensieri, tengo a bada presenze che di giorno non riesco a guardare”.

Giovanni si abbandona, il suo corpo ossuto e dolorante si rilassa, i muscoli si distendono, i palmi delle mani sono rivolti in alto, in una immaginaria preghiera. Non sente le voci intorno, dorme o forse semplicemente non sente più. E Greta sente finalmente la pioggia, la aspetta da giorni, la sente quella pioggia salvifica che cade e lava, modella le sue stesse ossa, scivola leggera, pulisce le sue labbra, i suoi occhi, lava le sue braccia stanche.

Greta sente per un attimo la pace, non c’è più quella giovane donna, è andata via, e suo padre è lì inerme e disteso accanto a lei. L’ha vegliato per giorni e ora nessuno potrà sottrarle quel posto, solo lei poteva stargli accanto fino alla fine e poi ancora oltre.

Che senso ha ora restare per vedere una pelle che muore, che cambia odore, colore, che si accartoccia in un angolo. Che senso ha ora piangere un padre di cui ignori segreti e sperare di far tornare indietro quella vita. Che senso ha distruggersi tra dubbi e incertezze di una vita che aveva offerto geometrie chiare e infallibili e ora si rivelavano fallaci e scalene. Succede che per restare occorra dimenticare e inventarsi storie, che svaniscono leggere e lasciano solo spazio a un dolore sordo e incolore.